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Immagine del redattoreSimone Casonato

Pedalata di punta e biomeccanica del ciclismo

Talvolta ci capita di osservare atleti che adottano una “pedalata di punta”, ma che cosa implica esattemene questo gesto, è scorretto? Se lo è quali problemi può determinare in chi pedala così?


Seppur con minor frequenza rispetto ad altri sport, capita d’incontrare in laboratorio ciclisti e triathleti affetti dall’infiammazione del tendine d’Achille. Tra i fattori che possono provocare questo problema troviamo sicuramente l’eccessiva plantarflessione della caviglia durante la fase di richiamo al punto morto superiore (vedasi video).


Spesso questo problema si manifesta con un dolore ed irrigidimento lungo la parte posteriore del tendine, in particolare verso il calcagno.

E’ proprio la caviglia quindi protagonista delle nostre analisi cinematiche, essendo l’articolazione che consente la dorsiflessione e plantarflessione durante la pedalata, stabilizzando il piede durante la fase di spinta.

Il piede si sposta da una posizione dorsiflessa a una posizione plantarflessa attraverso la parte inferiore della pedalata, prima di tornare in una posizione dorsiflessa.



Sotto il ginocchio troviamo infatti muscoli come il gastrocnemio e il soleo che hanno un ruolo di stabilizzazione (senza il polpaccio, il tallone cadrebbe..), atto a consentire una transizione efficiente della forza generata dalla parte superiore della gamba verso il pedale. Questi muscoli quindi non si occupano, a differenza di fasci muscolari come quello del quadricipite, di generare i wattaggi richiesti, ma sostengono l’arco longitudinale del piede, rendendo così diretto ed efficiente il trasferimento della forza generata dalle gambe dell’atleta al pedale della bici. Nella pedalata, tutti i muscoli delle gambe lavorano in modo sinergico per dare forza ed efficienza ad ogni singola rivoluzione dei pedali. Una eccessiva plantarflessione o dorsiflessione, se ben controllate, generalmente non creano problemi agli atleti e non sono pericolose.


Motivo per cui chi pedala molto “di punta” non sempre accusa fastidi o dolori anche nella pratica più intensa o lunga. Talvolta invece restrizioni della dorsiflessione della caviglia possono portare a dolore nella parte anteriore del ginocchio e dell’anca, e debbono essere valutate sia come altezza sella che come tacchette o lavoro posturale giù dalla bicicletta.


Mi è capitato nelle ultime settimane un caso di una giovane ciclista che possedeva elevati livelli di flessione. Per ovviare a questo problema, alcuni biomeccanici arretrano le tacchette in modo innaturale oppure abbassano la sella a grandi passi.

In letteratura scientifica è noto (Millour et al, Journal of Science and Cycling 2020) che i ciclisti che hanno poca estensione del ginocchio accentuino la dorsiflessione; al contrario, coloro che pedalano con un ampio angolo di estensione ginocchia aumentano la plantarflessione.

In questo caso, l’atleta che era stata visitata da un famoso biomeccanico aveva subito una riduzione dell’altezza sella pari a 1,5 cm (!) e presentava le tacchette al massimo arretramento consentito. Mantenendo intatto un angolo di flessione della caviglia elevatissimo, superiore a 112 gradi al PMI. E con le tacchette posizionate nel modo sbagliato da un punto di vista anatomico-funzionale.


L’analisi 3d ha cioè evidenziato come, seppur con un angolo di pedalata eccessivamente ridotto (133 gradi di estensione max ginocchio), permanesse un movimento del piede “in punta” nella fase di transizione al punto morto inferiore. Insomma, questa importante riduzione di altezza sella NON aveva generato una diminuzione della plantarflessione durante la pedalata, come era stato preventivato, portando però tanti altri problemi all’atleta a causa della limitata estensione in fase di spinta al punto morto inferiore (ginocchio anteriore).


Dopo aver analizzato la situazione, ho (ri)alzato la sella di 1,3 cm, e la flessione della caviglia di questa atleta non si è accentuata in alcun modo, suggerendo come la questione non fosse di altezza sella o tacchette, bensì più prettamente posturale e da gestire con appositi esercizi specifici 2-3 volte a settimana.

Il nostro corpo infatti non è un pupazzo snodabile, e la pedalata non dipende solo ed esclusivamente da aspetti meccanici; si rischia di dimenticare la dimensione “biologica” dell’atleta, ossia eventuali limitazioni muscolo-articolari (attivazione di soleo e tricipite, limitata mobilità caviglia, aspetti traumatici precedenti, etc) che in realtà sono importanti per non creare ulteriori fastidi ed imbalance articolari.

Gli strumenti come l’analisi 3d sono quindi di grande utilità, ma se non supportarti da conoscenze anatomico-funzionali da parte di chi li gestisce possono fare altrettanti danni agli atleti di chi opera “ad occhio” e senza particolari supporti tecnologici.

Non per niente si parla di BIO-meccanica, non di meccanica pura.


Per concludere:

_la pedalata “di punta”, seppur non sempre piacevole da vedere, può non essere fonte di traumi per gli atleti di ogni livello e non deve essere valutata a prescindere come negativa

__la posizione della caviglia varia di molto da atleta ed atleta, anche considerando ciclisti professionisti oggetto di ricerche scientifiche. Non esiste un angolo ottimale

_ le modifiche a tacchette e altezza sella, fermo restando le implicazioni meccaniche associate, debbono considerare sia le ginocchia che la caviglia, onde evitare di creare ulteriori problemi lavorando solo su uno specifico parametro

_ quando si lavora su problemi di eccessiva flessione della caviglia, occorre considerare non solo la parte cinematica 3de ma anche le limitazioni anatomiche e funzionali del corpo, che spesso si manifestano ancor prima di salire in sella e debbono essere valutate con perizia da un esperto

_gli effetti di lungo termine ad una nuova tecnica di pedalata non sono stati valutati con chiarezza in letteratura, pertanto si raccomanda sempre un adattamento cauto dopo le modifiche, al fine di preservare intatta la propria efficienza in bici.

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